Cuba, con i reduci di Fidel tra fedeltà e paura le ceneri della Revolución
L’AVANA – Non l’ha mai amato, né detestato: per mezzo secolo ne ha sentito la presenza. Invadente, rassicurante, ossessiva. Rivoluzionario giusto o tiranno? Questo l’inconscio dilemma per Miriam che adesso, in piazza della Rivoluzione, trattiene a stento i singhiozzi davanti alle ceneri di Fidel, che sono in attesa di essere portate e sepolte a Santiago accanto a quelle di José Martí, eroe delle guerre di indipendenza. Il puntuale colpo a salve di un cannone ricorda il lutto nazionale, e anche che la rivoluzione è orfana. E si sa che le lacrime degli orfani possono nascondere segreti incofessabili. Il senso di vuoto, in cui lo smarrimento e il dolore possono essere venati di un sollievo più o meno vago, lo si avverte nella città più riservata del solito. Quasi silenziosa. Ieri alle due del pomeriggio i negozi hanno abbassato le saracinesche, i mercati chiuso i loro banchi ed è iniziata una processione muta verso la Plaza de la Revolución.
A volte hai l’impressione di poter palpare i sentimenti, che cambiano o svaniscono come i razzi in un fuoco d’artificio. Fidel Castro è rimasto al potere più di qualsiasi altro nella nostra epoca contemporanea. Ha resistito tanto a lungo da consentire undici mandati presidenziali a Washington, tutti ostili, con il fiato sul collo della piccola fastidiosa isola proprio lì, a portata di mano. Come Fidel sia riuscito a morire nel suo letto è uno dei grandi romanzi politici della nostra epoca. A partire dalla dottrina Monroe, che adeguava la stagione politica nel continente agli umori della Casa Bianca, pochi caudilli latinoamericani c’erano riusciti. Fidel non era un caudillo. Era qualcosa d’altro. Il suo coraggio, la sua abilità, la sua ambiguità gli hanno consentito di vivere fino a novant’anni. I cubani ne sono fieri, ma anche stupiti. Forse esausti. I padri troppo longevi non sempre sono i più amati. Gli esuli, e nemici, di Miami esultano. Ma hanno torto. Non sono loro che hanno vinto. La morte naturale non è inflitta da una guerra.
Nella città quieta di questi giorni c’è anche, davanti ai municipios dei quartieri, qualche fila di uomini, donne, ragazzi in attesa di firmare una dichiarazione in cui confermano fedeltà alla rivoluzione, che “continua” dopo Fidel. È un atto di fede e una procedura del regime. Ma ritorno a Miriam, che ha vissuto i cinquant’anni di Fidel nella sua cucina: combattendo con le razioni di pane quotidiane; vivendo con il timore che i figli o il marito finissero alla Cabana, la prigione ben in vista dal Malecon, il lungomare dell’Avana; o in preda a vampate di emozioni quando lui diceva per ore che la rivoluzione apparteneva al popolo, dunque anche a lei, Miriam, che adesso trattiene a stento i singhiozzi. Miriam si è sentita via via, a suo modo, militante o vittima. Adesso è una reduce. Desolata o liberata non lo sa ancora. Il vuoto che si è creato da quando Fidel è soltanto un pugno di cenere l’intimorisce. Non sa se avere paura o rallegrarsi. Dunque piange.
Fonte: La Repubblica